lunedì 22 giugno 2015

CHI C’E’ NELLA CELLA N. 110?




Prigione di Givon, Tel Aviv. Tutto è bianco e azzurro, i colori del terrorista israele. Sono nel braccio femminile immigrazione. C’è un gruppo di filippine, uno dalla Russia, una cinese, qualche donna dall’Africa. Io sono nella cella n. 108 con due donne della Costa D’avorio. Sono stata messa lì per punizione, perchè con le due ivoriane nessuna vuole stare. Quando entro, da subito, non sono benvenuta. Non ci diciamo i nomi e una delle due inizia a darmi ordini più delle guardie. L’altra è una mezza santona che prega in modo animato giorno e notte. Io venivo da 3 giorni di isolamento in sciopero della fame a Ben Gurion. Ne avevo per il cazzo di farmi stancare da caratteri difficili, volevo amarle, perchè eravamo in prigione assieme. Non uscivano dalla cella nemmeno quando c’era la porta aperta. Ho iniziato a parlare con loro. Erano in quella cella da due anni e sei mesi perchè aspettavano lì di diventare rifugiati politici. Dovevano resistere per 5 anni. I figli fuori, che le aspettano. Ho detto loro che potevano camminarmi sulla testa per il rispetto che gli portavo. Pur non condividendo il posto che avevano scelto, israele, la loro era Resistenza. Quella cella era diventata la loro casa, tutto quello che avevano e la difendevano. Siamo diventate amiche. La mia ultima sera, quella più giovane ha cantato e ballato per farmi sorridere. L’altra mi ha detto il suo nome e ci sono rimasta di merda: “mi chiamo A Cuba Filastin”. Non mi dimenticherò mai di loro e spero un giorno di incontrarle in qualche posto nel mondo, fuori dalla prigione; non posso dire “da libere”, perchè per me lo erano già. 
Uscendo dalla prigione, il mio pensiero è andato a qualcuno in sospeso nello spazio/tempo.
Mi sono accorta che la cella 110 ha sempre la porta chiusa. Lasciano il vassoio del cibo nella feritoia.... quindi c’è qualcuno lì dentro. Inizio a fare domande e mi dicono che c’è dentro una donna da anni. Quando è arrivata non aveva documenti, non ha voluto rispondere alle domande, parla più lingue. Insomma, non sono riusciti a capire chi è e da dove viene. Un giorno ha urlato ad una guardia ed è stata sbattuta in quella gabbia dove hanno messo anche me. L’hanno lasciata lì per due giorni. Quando è uscita dalla gabbia, era impazzita. Nessuno le si poteva avvicinare, urlava a tutte. La mia compagna di cella è lì da due anni e sei mesi e mi dice che quando è arrivata a Givon, quell donna nella 110 era già lì. Da anni nessuno le parla, nessuno la chiama per nome, non esce dalla cella. Mi hanno detto che resterà lì per il resto della sua vita perchè non saprebbero dove rimandarla. Ci pensate? Quella non è una criminale, era senza documenti e non ha voluto rispondere ai nazisti, ok. Ma passerà tutta la sua vita in isolamento. E’ un essere umano, cristo! I nazisti sono così, non considerano essere viventi gli altri, non pensano a mandarla in un luogo dove possano curarla. Io, quest’articolo, lo scrivo per lei. Per far sì che esista. Che il mondo sappia che nella cella n. 110 della prigione di Givon, braccio femminile dell’immigrazione, c’è una donna non molto alta, con i capelli ricci e oramai grigi. Quel grigio non solo dall’età, ma della prigione.
Qualcuno faccia rivedere il sole a quella donna. Qualcuno le dica “ciao”.

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